Arte / Liturgy Of Being (archivio2)


Liturgy Of Being, passeggiate fotografiche.
(Bologna, Firenze, Lugo, Faenza, Bagnacavallo, Forlì, Aquileia, Aurisina, Évora)

All’ombra dei cipressi Ha ragione Matteo Bosi quando dice che quello della morte è l’ultimo tabù rimasto in una società occidentale ormai senza passato e quasi senza futuro, del presente permanente e che si droga di consumismo esasperato forse proprio per rimuovere la paura di una fine. Lo si sa, come ben conosciuti sono anche i conseguenti meccanismi di rimozione. Non è necessario comportarsi come quei monaci che incontrandosi si dicono ogni volta, reciprocamente, “fratello, ricordati che devi morire” ma non risulta nemmeno che un capolavoro come La morte di Ivan Il’ic di Lev Tolstoj sia mai stato inserito nelle antologie scolastiche e che un libro come La morte del filosofo Vladimir Jankélévitch sia mai entrato in una classifica top ten. Quanto può ricordarci la morte viene allontanato: cimiteri per primi. In qualche modo, tutto è cominciato con l’editto di Saint Cloud (1806) che estendeva al Regno d’Italia la legge napoleonica del 1804 e che, per motivi igienici e sanitari, proibì le sepolture nelle chiese o nei loro annessi e impose a ogni Comune italiano la costruzione di cimiteri pubblici al di fuori delle mura. Da questa data non più piccoli cimiteri nei centri urbani, che magari conveniva attraversare per raggiungere una qualche destinazione, e rare sono diventate le sepolture nelle chiese, con la conseguenza di una interruzione nella collocazione di monumenti celebrativi che, nel tempo, avevano arricchito architetture già per loro stesse magnifiche. A questa imposizione, criticata anche da Ugo Foscolo, sfuggirono, in qualche modo, i paesi avversi alla Francia e in area anglosassone o centro europea sono sopravvissuti cimiteri interni alle città e ne ricordo uno, a Salisburgo, che visitai e che aveva al suo centro una panetteria, anche molto frequentata. Oggi, in genere, i cimiteri sono delle necropoli murate, sia che si tratti di un cimitero di campagna circondato da cipressi, di un cimitero comune o monumentale o di una più nuova costruzione come quello di Modena di Aldo Rossi. Un muro divide la vita da un regno nel quale si penetra solo nei momenti più tragici, per dimostrazioni di affetto, di compassione e di pietà o, come sta sempre più accadendo, per rendere omaggio a protagonisti della storia letteraria, musicale, artistica, politica e sociale. Gli ultimi sostenitori della sinistra visitano la tomba di Karl Marx (ricordate il film Morgan matto da legare ?), qualcuno quella di Van Gogh e del fratello Theo (quasi per ripagarli di una vita senza riconoscimenti) ma ancor più sono quelli che non resistono al fascino di toccare o di posare un fiore su quelle di superstar come Rudolf Nureyev o Jim Morrison. Poi ci sono le opere d’arte collocate a memoria di estinti più o meno famosi o più o meno ricchi ed è prevedibile una sorta di turismo funerario. Ma non ci sembrano questi i motivi che hanno indotto Matteo Bosi, e con lui Paolo Squerzanti, a scattare fotografie in alcuni cimiteri italiani ed europei, in qualche caso anche di guerra. Sembra di poter dire che quello che interessa Bosi non è tanto il nesso tra l’omaggio funerario e il defunto quanto piuttosto il prevalere di un tempo che ha dissociato il monumento dagli obblighi originari, allontanato nel buio di una notte senza luce di luna o di stelle i dedicatari di architetture e statuarie riportandoli in un anonimato che nemmeno i ritratti pittorici o fotografici possono contribuire e riscattare e - ricoprendo con polvere, muschi e licheni le pietre e i marmi – avvolto simboli un tempo smaglianti con un sottile manto naturale che sa di ineluttabile, di malinconia e, in fondo, di vera, definitiva scomparsa. Sembra quasi, in queste fotografie, che lo sforzo di memoria tradotto nei marmi e nei materiali più eterni e imperituri abbia ceduto di fronte a un tempo che tutto travolge e tutto conduce verso l’oblio. Le statue da lui ritratte sembrano personaggi di una azione teatrale quasi surreale ambientata in uno spazio e in un tempo che sanno più di limbo che di inferno o di paradiso. Le umane passioni, tra vertici e cadute, non hanno lasciato traccia e gli stessi, prevalenti e ostentati, gesti melodrammatici delle statue non fanno che incrementare un senso di inutilità, di inanità e di impotenza. Sotto un cielo plumbeo e greve le bianche statue incrostate di verde o di terra sono silenziose e indifferenti come la luna di Leopardi. Una azione teatrale dai convitati di pietra: senza scopo, senza canovaccio, senza trama, senza fine che non sia quella dell’essere, prima o poi, ricoperta da quelle materie dalle quali ha tentato di emergere. Una visione, questa, che ricorda quella del film Easy Rider al momento dell’assunzione dell’acido, senza benefici, da parte dei due protagonisti nel cimitero di New Orleans. A questo primo passaggio fotografico, che rientra in un grande filone letterario e artistico che ha origini nel primo romanticismo, ne succede però un altro: quello della rigenerazione delle immagini attraverso un gesto creativo. Manipolando, dipingendo, dorando, operando con la tecnica del collage, Bosi ricrea e riconduce a noi gesti perduti e simbologie lontane. La Madonna diventa una avvenente, giovane fanciulla imbellettata con una aureola di penne di pavone luminose oppure ha tre mani come l’icona cristiana legata a San Giovanni Damasceno; una sorta di ectoplasma tenta di avvicinarsi a noi attraverso un foglio traslucido; un dittico è composto dal dialogo tra l’anziana madre e una statua che raffigura una giovane figlia dolente; fiori marmorei si trasformano in fiori veri; i contorti rami che avvolgono i monumenti funerari fuoriescono da bocche affascinanti; un decoro che ricorda il klimtiano albero della vita fa da sfondo al lugubre e orrido bacio di uno scheletro; il bianco e nero della statuaria contrasta con i colori delle fotografie che le riecheggiano; una dolorosa corona di spine fuoriesce da una fitta ragnatela che fa tutt’uno con un procace corpo femminile. E poi tatuaggi, avvolgenti garze, calcinazioni, tele macchiate. Ridando sangue e carne alle statue Bosi apre a visioni dalle molteplici interpretazioni: tra surrealismo funerario, memento mori, vanitas e vissuta consapevolezza di un limite. Visioni che sono venute all’ombra dei cipressi ma che, con un’opera di rigenerazione, tornano ad accompagnarci giorno per giorno nella nostra quotidianità come il “Knock, Knock, Knock” di T.S.Eliot: “And you wait for the knock and the turning of the lock / For you know the hangman’s waiting for you / And perhaps you are alive / And perhaps you are dead / Hoo ha ha / Hoo ha ha / Hoo / Hoo / Hoo / Knock, Knock, Knock / Knock, Knock, Knock / Knock / Knock / Knock”. Senza rimozioni.

Franco Bertoni



"As a conclusion of a long travel across the most important italian and european cemetries and after the successive work of construction of a narrative related to the mistery and the tabù of death, I produced a series of artworks called "Litanie, in camera oscura". The triptych "the three urns", shown in the present catalogue, is part of this collection. The underlying iconography of the whole series aims at express not only the caducity of life, but also the very deep connection between the sacred and profane as it is particularly revealed in the cemetries I visited. Finally, a mistic flavour permeate most of the artworks. The intimate dialogue that arose during my travel in the middle of those ancient stories, sensations, emotions made this experience unique for me. My crepuscolar nature freed beneath my sight the matter, and then I started creating."

Liturgy Of Being (Bologna, Firenze, Lugo, Faenza, Bagnacavallo, Forlì, Aquileia, Aurisina)