Arte / Costellazioni


All’ombra dei cipressi….
di Franco Bertoni

Scorrendo le immagini delle opere di Matteo Bosi, appare con evidenza che la loro fonti iconografiche affondano in un universo di immagini e di simboli afferenti a un unico tema di fondo. Quasi esclusivamente e con le armi di un’arte polimaterica, Bosi ha dato volto a un senso di disfacimento, di lacerazione, di appassimento, di decadimento, di fine e, andando alla radice, all’ultimo dei tabù, la morte.

Anche i suoi fiori, quando appaiono, non sono certo essenze vitalistiche che colorano e profumano ma sono piuttosto quelli di una natura morta fiamminga che svolge diligentemente il tema del memento mori. Magari con il supporto di tutta una complessa serie di simboli, per loro natura instabili e mutevoli e, quindi, rinnovabili. Anche le sue figure femminili, per lo più acerbe, non preludono certamente a destini felicemente e solarmente procreativi ma piuttosto a prematuri compianti causati da una sorte malvagia. Anche le illusioni di un progetto superiore, i fili colorati tesi geometricamente sulle figure, non riescono a illudere circa un qualcosa, cosmico o meno che sia, dotato di senso.



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Il pensiero della morte è persistente in tutta la vicenda umana e ha afflitto tanto Omero e Virgilio quanto Shakespeare e T.S.Eliot, tuttavia, crollati tutti i valori (tra consolazioni e fiducie in altri mondi, universi o dimensioni) è proprio oggi che il suo sapore è diventato, forse, ancor più acre e disturbante. Siamo ormai ben lontani dalle grandi paure più o meno antiche, dal Pontormo che rifuggiva anche la sola vista di un funerale, dalla partita a scacchi tra il cavaliere e la morte di Ingmar Bergman e dal “toc...toc...toc …” di Eliot poiché su un inevitabile destino è stato steso un “velo di Maja” che tenta di nascondere e occultare questa ed altre realtà. In questo mondo luminoso, a vivaci colori e patinato, il senso di decadimento e di fine è combattuto a colpi di botox e di rimozioni. Un po’ come si fa con le discariche, magari oceaniche. L’ultima immagine di “Frantic” di Roman Polanski è dedicata alla raccolta dei bidoni della spazzatura di una Parigi ostile e fonte di complessi turbamenti che colpiscono un uomo comune: l’ordinaria e banale figura del protagonista. Le pattumiere non mentono e sono proprio esse a rivelarci scomode verità che vengono edulcorate dalle luci abbaglianti di quel supermercato globale che è il mondo attuale in cui tutto deve essere nuovo, lucente e avere un’aria di eternità. La parola “nuovo”, va ricordato, è stata anche una ossessione, quasi un necessario imprinting, di tante parti di un’arte moderna e contemporanea che ha dimenticato, ingenuamente o furbescamente, le invecchiate “croste” dei musei. La lucida carrozzeria di un’automobile, più bella della Vittoria di Samotracia, contro il vecchiume dei musei, delle biblioteche, delle accademie di ogni genere (povero Marinetti, povera Italia e poveri noi!). Non si può negare, almeno, che Marinetti sia stato, in qualche modo, almeno un veggente poiché da queste premesse è nato il mondo attuale, il mondo di coloro che vogliono “glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”. Un ritratto perfetto dell’oggi tra guerre ben alimentate, antagonismi nazionalistici, belle idee per le quali si perpetuano massacri e femminicidi ormai quotidiani.

E poi, il destino museo e della memoria: dare “fuoco agli scaffali delle biblioteche, sviare il corso dei canali per inondare i musei. Oh, la gioia di veder galleggiare alla deriva, lacere e stinte su quelle acque, le vecchie tele gloriose! Impugnare i picconi, le scuri, i martelli e demolire, demolire senza pietà le città venerate”: tutte cose realizzate, in Italia, senza soluzione di continuità dal fascismo e da un secondo dopoguerra che solo Pasolini ha osato mettere sotto accusa. A livello internazionale basti ricordare l’attentato alle Torri Gemelle di New York o le distruzioni archeologiche, architettoniche e artistiche operate da Al-qaida e dall’Isis.

Ma distruzione, fine e morte - pur sotto gli occhi di tutti se non altro attraverso le immagini, a spot e di breve durata, dei mezzi di comunicazione di massa – sembrano perdere subitaneamente di presenza poiché, sempre Eliot, “il genere umano non può sopportare troppa realtà”.  

Matteo Bosi, senza toni roboanti e magniloquenti e senza pretese moraleggianti o edificanti, si è addentrato invece in questo impervio tema. Il passato non gli è nemico, il museo è sua fonte di alimentazione, la grande tradizione dell’arte è sempre presente con allusioni mentre invece la violenta e chiassosa modernità viene rifuggita.
Toccato in qualche modo dal romanticismo, dal decadentismo, dal simbolismo, dall’antiaccademismo, dall’immaginario più estremo, da un senso di nostalgia, dall’allegoria, dalla bellezza acerba e dalla sensualità, Matteo Bosi ha voluto inoltrarsi in quel terreno buio e impervio che è il regno del rimosso. Sembra quasi di vederlo mentre si aggira con la macchina fotografica in quei regni dei morti che sono i cimiteri (altro luogo di allontanamento dalla vita rumorosa delle città di una realtà tanto silenziosa quanto disturbante) e, in queste necropoli, puntare l’obiettivo su statue dolenti e ritratti di sconosciuti che, pur all’ombra dei cipressi di foscoliana memoria, non possono assurgere a quell’eternità garantita, o sperata, dal compimento di gesta eroiche o, se non altro, significative. Nemmeno i poveri soldati mandati al macello durante la prima guerra mondiale (cui ha dedicato una mostra) possono ambire a un qualcosa che non sia una mera memoria anagrafica uguale a tante altre. Muschi e licheni prevalgono.

All’ombra simbolica dei cipressi (si pensi a Böcklin) Bosi ha raccolto frammenti di legno, spesso combusto, da utilizzare come supporto per fotografie e carte altrettanto usurate sulle quali, poi, è intervenuto ulteriormente con strappi, lacerazioni, giustapposizioni coloristiche e le più varie materie.
Il collage, o meglio una sorta di found footage alla Cornell, è la sua tecnica preferita perché gli permette di accostare e accatastare immagini che, per via di stratificazioni, assumono un aspetto vissuto, quasi fossero maltrattate reliquie destinate all’oblio che, invece, creano legami tra passato e presente. Dal buio della memoria fuoriescono visioni in cui prevale la dimensione notturna del sogno e dell’incubo. Nel silenzio della notte, come in Füssli, visionarietà e concrete paure si confondono. Santi, martiri, moderne
Ofelie, soldati da prima linea, attrici dimenticate, personaggi oggi sconosciuti ma che pur ebbero peso e rilievo e volti anonimi compongono una iconografia di un perduto e di un rimosso cui, però, non sembra essere concessa alcuna chance di resurrezione. Come sembrano ricordarci anche i volenterosi ma poco significanti tatuaggi e le scritte fatte di alito che, a volte, come in fumetto escono dalle bocche dei ritratti. Parole nel vuoto.

Tuttavia, l’arte di Matteo Bosi, cantore di eventi decisivi quanto opachi come quelli “irriducibili”, conserva memorie, segni e tracce: in fondo, vita brevis, ars longa.