Arte / Identità nascoste


Voci disincarnate
di Marisa Zattini

«Per quanto frammentarie possano essere le sue condizioni, un’opera d’arte rappresenta sempre un pezzo di divenire immobilizzato, o un’emanazione del tempo passato. È il grafico di un’attività ora spenta, ma un grafico che, come un corpo celeste, è reso visibile dalla luce originata da quell’attività» (George Kubler 1)

Ci sono forme d’arte dove la volontà dell’artista maggiormente si radica e si esalta in un particolare sentire che viene da un altrove. Forse perché il qui e ora non è altro che un’impronta del futuro ricevuta dal passato. Le fotografie pittoriche e polimateriche che compongono questo ultimo ciclo di opere di MATTEO BOSI (Cesena 1966) sono rinnovate da costellazioni semantiche che si innestano sui lavori fotografici offrendoci una mescolanza di passato che riaffiora, prepotentemente, con finestre sul futuro. Costellazioni che come timoni psichici segnano il nostro tempo su questa terra, condizionandolo. Perché ogni opera d’arte è un campo di gravitazione magnetica. Si tratta di voci disincarnate. «Noi siamo ciò che ricordiamo di essere stati», ci rammenta l’artista con un suo significativo titolo. Ne emergono così opere di grande pathos che sanno di fusione mistica e di magia. Come nella Costellazione del Sacro cuore – mi piace definirla così – dove le fiamme divampano. Nel silenzio dei non luoghi da lui evocati tutto riposa senza più limiti. Ecco allora che dal bitume, fra legni bruciati e reperti di ritratti fotografici, collages e frammenti di fiori e foglie e lettere, così come sulle parole che sibilano nel ricomporsi spiralmente, fra corde e chiodi, santini e cartoline scorrono rinnovati occhi di stelle. Partiamo dalla fotografia e dai suoi momenti aurorali. Matteo Bosi non appartiene certamente alla schiera dei “raccoglitori impassibili di dati”, come taluni fotografi amano definirsi e neppure alla lista dei realisti classicisti. Non è un tassonomico alla Sander o un paesaggista all’americana. Non è un fotografo attratto dalle città e dalle architetture. È piuttosto un artista perlustrativo che utilizza il mezzo fotografico per contaminazione. «La fotografia ha la dubbia fama di essere la più realistica, e quindi la più superficiale, delle arti mimetiche. In realtà è l’unica arte che sia riuscita ad attuare la grandiosa secolare minaccia di una conquista surrealista della sensibilità moderna […]»2.

CAPITOLO “1” – Non omnis moriar, liturgia in camera oscura. La visita ai cimiteri monumentali, gli archivi fotografici della Grande Guerra e i Fanti di memoria. Poi la pittura sulle fotografie che ritroviamo ancora oggi. Avvertiamo ritmi sonori di mutamento su ogni suo recente lavoro. Una grammatica di fuga nei colori che si infiltra sottilmente per poi trionfare in una piena esaltazione. Ecco allora che nell’azione fossile del documento recuperato, sulle reviviscenze del passato, entra marcatamente la mutazione genetica. Si sa che l’invenzione artistica richiede sforzi solitari di individui isolati, perché fare l’artista «presuppone il distacco da ogni prassi abitudinaria»4. Matteo Bosi procede sempre nella sua ricerca con metodo e invenzione. Le coppie di memoria cimiteriale, sculture di algidi angeli in dialogo generazionale con chi poco dopo avrebbe ragionevolmente oltrepassato la soglia della vita, erano un gioco di specchi e di rimandi familiari che approdava poi nei Ritratti impossibili.

CAPITOLO “2” – Occhi di stelle – Cartoline in viaggio - Wittgenstein sostiene che il significato delle parole stia nel loro uso. Stessa cosa possiamo dire per la fotografia. L’uso delle cartoline teatrali, ad esempio, selezionate al di fuori di quel contesto, perduta la loro rilevanza storica, con Matteo Bosi ne hanno assunto una inaspettata, ancor più profonda e artistica. Oltre la pelle, nel taglio incisorio che scopre altre sostanze, si disvelano frammenti di Madonne, tessuti, cromatismi di anime misteriose. Anche le parole si incarnano in figure là dove il segno grafico decorativo – ramages, puntinature, onde vibratili – non basta più. È un tatuare di memorie nuove per chi non ha più voce. Perché tutto può ricominciare e rifiorire. Si tratta di un innesto visionario alchemico di forte impatto emotivo fatto di nuove splendide fioriture. Una doppia sfaldatura temporale ideata per queste iconiche reliquie che restano così ancorate nel flusso delle cose, per il tempo a venire.

CAPITOLO “3” – Ritratto velato. Ossessione – Io sono il frutto del mio pensiero, il tatuaggio come espressione interna del mio corpo. Velare per meglio svelare… e il serissimo gioco dell’arte continua! Metamorfosi - Innesti fra natura e corpo umano, fra natura animale e natura umana nella deformazione di corpi, fra paura e meraviglia. Di questi ho il ricordo emozionale dei nostri primi incontri. Matteo Bosi era immerso, allora, in un mondo surreale che si avvicinava a quello di Joel-Peter Witkin, ma senza morti o pezzi di cadaveri. Un mondo costellato di raffinate trasmutazioni, ponti ideali per ultramondi fantastici. Ossessioni, le sue, reiterate con strane e sconosciute bellezze che solo nei sogni, o negli incubi, potremmo avere il privilegio d’incontrare. C’era poi quella meticolosa passione, mai esaurita, per la costruzione della scena, per il soggetto preparato già al disegno successivo dell’opera. «Poiché ogni fotografia è soltanto un frammento, il suo peso morale ed emotivo dipende da dove viene inserita […]»3. Ne emerge una fedeltà a se stesso e a quella grande avventura dello sguardo e del pensiero. Una fedeltà a un’idea d’arte come viaggio della vita attraverso quelle sequenze, come le definiva Luigi Ghirri, del «regno delle illusioni e delle apparenze, luogo labirintico e speculare della moltitudine e della simulazione».

Note George Kubler, La forma del tempo, Piccola biblioteca Einaudi, Torino 2002, p. 28. Susan Sontag, Sulla fotografia, Piccola biblioteca Einaudi, Torino 2004, p. 45. Susan Sontag3, op. cit., p. 93.Kubler, op. cit. p. 23.