Novità / progetti fotografici: Identità nascoste


OGNI UOMO MENTE, MA DATEGLI UNA MASCHERA E SARA’ SINCERO.
(Oscar Wilde)

Infinite sono le dimensioni dell’Essere, come pare infiniti siano gli Universi che, secondo la Teoria del Multiverso, ci scorrono al fianco.
L’opera di Matteo Bosi, da sempre, è in cerca di quelle costruzioni, di quei ponti e di quei legami fra le stesse, più o meno misterici, o immaginifici, in cui ci troviamo a immergerci o da cui emergiamo. Inoltre, la stessa contestualizzazione dei personaggi da lui rappresentati, diviene un caleidoscopio di tutto ciò che è stato, che è e che sarà nostro bagaglio intellettuale ed esperienziale, trovando, nell’abbattimento delle porte temporali, un unicum spaziale di forte impatto emotivo, sensuale, passionale, seducente ( … in cui la stasi diventa componente prima al fine di descrivere uno stato).
Forse che quel “silenzio”, presente nel titolo di questo ciclo di lavori, sia la volontà di raggiungere un luogo e un tempo infine di pace, una sorta di azzeramento, di dimensione unicamente estatica, quasi mistica, nella quale poter placare la rincorsa di un assoluto indistinto dal quale il suo agire trova origine?
Conoscendo Bosi credo di sì, come poi testimoniano certe dissolvenze o certe osmosi con la Natura che affiorano, qua e là, dalle sue elaborazioni sceniche (oserei teatrali), dove la conoscenza si fonde con l’estasi, la costruzione con la nebulosità, il vero col verosimile, la materia con l’ostentato onirismo.
Da alcuni anni a questa parte, in Occidente, si sente parlare di nuovi “miti” che, differenziandosi sempre più dalle “leggende” figlie della tradizione, sono portatori di tematiche e ambientazioni proprie della società dell’oggi, rappresentando soggetti tipici dell’esperienza dell’uomo contemporaneo (di solito frutti del “caos” in cui l’individuo del neonato XXI secolo si sta dibattendo). Direi che è quindi importante fare luce sui bisogni collettivi che muovono questa recente forma di mitopoiesi (definiamola così), con il preciso intento di valutare la vera portata di tale elemento di novità rispetto a ciò che è stato; un elemento che nell’oggi risulta quale espediente (spesso postmoderno) al fine di esorcizzare la graduale perdita di identità a cui siamo sottoposti a seguito della globalizzazione in atto e delle derivate omologazione e centrifugazione esistenziale a cui siamo sottoposti.
Ma come si presentano questi miti dell’oggi?
Le storie che circolano narrano di eventi e situazioni curiose, spesso dai risvolti meramente tragici, oppure tragicomici, che si offrono come sapere popolare ancora una volta da tramandare attraverso la diffusione orale. Questo implica la profonda importanza che assume, appunto, la leggenda quale aspetto significativo del mostrare le varie componenti di ciò che si condivide nel sociale, al fine di giungere alla piena comprensione di una civiltà, sotto il profilo socio-antropologico per poi renderlo artistico.
Matteo Bosi rientra in questa ricerca, dove le narrazioni che si presentano come “voci che corrono”, i cui epicentri raramente risultano identificabili, non sono da confondersi con le favole; non sono neanche semplici errori condivisi, ma portano con sé una propria verità, mettendo in luce aspetti di una conoscenza difficilmente rilevabile attraverso altre fonti o indagini tecno-scientifiche. Infatti, essendo credute, o ritenute credibili, le leggende (le saghe) influenzano la percezione degli individui e contribuiscono alla completa costruzione della realtà. (...) Senza lo “scudo della ragione” l’umanità diventa statua, imprigionata nella sua immobilità. E così si articola l’arte di Matteo Bosi, infatti quello che parrebbe irrazionale, riflettendosi in noi, acquista una sua logica, un suo senno, una facoltà intellettiva, in cui il corpo, esteticamente ricercato nella sua funzione e nei suoi decori, risulta metafora di un pensiero oltremodo articolato, minuzioso, profondo, perché simbolicamente liberato dall’oscuro che ci ingenera l’ignoto. Perciò il linguaggio usato da Matteo Bosi poggia su delle componenti che di continuo ci suggeriscono che coi grandi miti del passato, come con quelli del presente, e con quelli che sanciranno il nostro futuro, è sempre consigliabile andare oltre (cioè superare) il senso letterale, il possibile primo rimando, l’impatto viscerale, la suggestione del momento e del visibile, per riuscire a intravedere un messaggio etico che sovrasta il rappresentato stesso, così da perdersi in un continuo oltre scaturito dal concettuale, dallo speculativo, da un pensiero ideale che non avrà mai fine, non avrà mai morte.
Il silenzio di Bosi è, quindi, un’utopia che diventa possibile, è il possibile concretizzarsi di un’illusione, perciò il dare scheletro a un possibile divenire in arte e in vita, sebbene nella circolarità che caratterizza l’esistenza, in quella magia che ruota su se stessa, in quelle sue componenti evocative e cerimoniali.Bosi è sacerdote in questo, e la sua risulta una vera e propria liturgia in arte.
Gian Ruggero Manzoni